Il gioco nel mito e il mito del gioco

Il gioco nel mito e il mito del gioco, di Riccardo Zerbetto - tratto da "Il gioco&l’azzardo" a cura di Riccardo Zerbetto e Mauro Croce, FrancoAngeli Ed.. 2001

L'uomo gioca

L'uomo gioca. Gioca da sempre. O almeno da quando, distinguendosi dagli altri primati, diventa uomo. Forse anche prima ma, seguendo Huizinga, è propriamente questa attitudine a giocare che rendere quest'essere uomo. Ludens quindi non meno che faber e sapiens.

La "civiltà umana – afferma perentoriamente l'Autore – sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco"" (J. Huizinga, 1938). Affrancandosi dalla necessità l'uomo scopre uno spazio nel quale sperimenta la creatività gratuita del giocare con gli elementi del mondo e le sue rappresentazioni, i suoi simboli. In questo senso lo stesso Autore considera il gioco "come fenomeno culturale e non come funzione biologica" che si raccorda alle "spiegazioni dell'etnologia"". La dimensione biologico - etologica, quella etnico - antropologica, quella psico-sociologica e,, di conseguenza,, quella economico - politica,, sono in realtà così intimamente interconnesse che vano risulta ogni tentativo di demarcare rigidamente i confini tra questi ambiti di competenza. Resta comunque giustificato, ed anzi doveroso, il tentativo di delimitare un campo di indagine e di riflessione in un ambito così sconfinato dell'agire umano per evitare, per quanto possibile, confusive sovrapposizioni di angolature prospettiche seppure inevitabili, ed anzi utili, si renderanno alcuni rimandi tra le stesse. Scopo di questo contributo è il tentativo di cogliere alcuni elementi archetipi inerenti il tema del gioco che paiono sottendere la multiforme fenomenica dei comportamenti giocosi che ci è dato osservare nell'analisi socio - antropologica e nella clinica (Hubner, tr. it. 1995).


Inevitabile, per addentrarci in tale dimensione, far ricorso al mito, a quel distillato di eventi metastorici che dell'agire umano, nelle sue diverse forme, esprime le formulazioni primigenie. Tale orientamento, antico come il mondo se da sempre l'uomo si è ispirato a racconti paradigmatici come fonte di ispirazione e comprensione del suo stesso agire, si è riproposto con forza attraverso la psicoanalisi freudiana (vedi la centralità riconosciuta al mito di Edipo)) e più ancora junghiana e hillmaniana. Cogliere i riflessi di questa attività misteriosa e, come nessun'altra, divina (quando non diabolica), nel mito significa anche interrogarsi sugli elementi strutturali che,, seppure a livello inconsapevole,, "agiscono l'uomo"",, potremmo dire "lo giocano"" nel suo esprimersi. Lo scopo di questa riflessione non sta quindi in una enumerazione di mitologemi sul gioco desumibili da un'indagine di mitologia comparata, quanto nel tentativo di cogliere quali elementi archetipi siano presenti sia nelle configurazioni mitologiche che nel 'agire umano sul tema che ci interessa. Obiettivo non semplice ed a cui queste pagine non si propongono che di dare un contributo assolutamente preliminare, ma che ritengo utile prima di affrontare le diverse angolature sul tema sotto il profilo clinico - descrittivo, terapeutico e sociale che verranno sviluppate di seguito. Tale intento si giustifica, in particolare, di fronte ad un tema così pervasivo, nella storia dell'uomo, che rende più difficile che in altri ambiti (quale tradizionalmente è quello delle droghe)) la differenziazione tra normalità e patologia, tra necessità primaria e bisogno indotto, tra pulsione fisiologica e condizionamento socio - culturale. Tale intrinseca ambiguità rende ragione del frequente alternarsi tra atteggiamenti di preclusione e demonizzazione delle attività di gioco, specie se implicanti forme di rischio personale (e non solo economico) e di tolleranza se non addirittura di incentivazione da parte dei poteri forti cui spetta la definizione delle leggi della collettività in funzione della costellazione valoriale cui si ispira in un certo periodo della sua storia. La globalizzazione dei costumi e degli orientamenti normativi, tipica del nostro tempo,, suggerisce quindi l'opportunità di una riflessione che attraversi le diverse esperienze raccolte dall'umanità nel confrontarsi su questo tema per trarne delle indicazioni di carattere generale che rispecchino,, almeno in linea ipotetica,, le determinanti ontiche, le archai che sembrano esprimersi dall'osservazione e dalla riflessione del rapporto tra l'uomo ed i suoi giochi o meglio del rapporto dell'uomo con se stesso attraverso le attività di gioco.

Rischiare per essere

Ma veniamo ai nostri miti e a cosa ci possono suggerire sul significato del gioco e del giocare. Mi limiterò a toccare fuggevolmente solo alcuni elementi tratti in particolare dalla tradizione greca che, più di ogni altra, sta all'origine della cultura dell'Occidente pur facendo qualche rimando ad altre tradizioni con le quali, sempre di più, studi di mito - antropologia comparata scoprono analogie sorprendenti. Il tema del gioco, oltre che pervasivo, nelle narrazioni mitiche è intrinsecamente collegato a quello religioso tanto che legittimo sarebbe chiamare l'' homo, oltre che sapiens - faber, ludens - religiosus. Non compaiono infatti accanto ai primi manufatti i primi resti di riti funebri, quel disporre i corpi e le pietre in un modo non finalizzato a scopi immediatamente utilitaristici ma che, in termini generali, rappresenta la categoria portante del fenomeno giocoso secondo la definizione di Huizinga?? Prima ancora che gratuito divertissement nato dall'esuberanza di una mente che può spaziare oltre i confini della lotta per la sopravvivenza, la manipolazione di oggetti - pensiero potrebbe nascere infatti, come acutamente suggerisce D. Conci (11992)) dall'insostenibile angoscia di "ssapere di morire"",, non solo come individui ma forse anche come specie se accreditiamo l'ipotesi secondo la quale lo straordinario sviluppo delle funzioni psichiche sia stata la condizione che ha garant ito la sopravvivenza in una mondo che era mutato in modo così radicale da essere quasi invivibile per i nostri progenitori arboricoli..
Di qui l'intrinseco elemento di serietà - sacralità del gioco inteso, come era agli albori del processo di ominazione, come tentativo di rappresentazione - manipolazione simbolica di un mondo popolato di potenze sovrastanti ed incontrollabili per difendersi dalle quali fu "necessario"" sviluppare capacità premonitivo - divinatorie per poter incrementare fattori propiziatori e conte nere (concretamente e fantasmaticamente)) quelli minacciosi da esorcizzare.
Disegnare sulla sabbia il "campo"" per elaborare una strategia di caccia o di scontro intertribale fu quindi la "mossa vincente"" per assicurarsi la vittoria e quindi il "successo evolutivo". Non andarono forse a Ulisse, "tessitore di inganni"" le armi di Achille anziché al fortissimo Aiace?? Il gioco ai dadi, nel quale si vedono impegnati Aiace ed Achille, in una assai nota anfora attica esposta nei musei vaticani, non esprime forse soltanto un'attività di passatempo tra uno scontro ed un altro sotto le mura di Ilio. Esprime quel gioco di simulazione - astrazione - simbolizzazione a cui sono legate, nelle sue potenzialità e nei suoi rischi, le sorti della nostra specie sul pianeta.

Lascia o raddoppia

Non c'è scarto evolutivo, in realtà, che non proponga il tema del "lascia o raddoppia"" (ciche non a caso, pur nelle sue infinite varianti, dilaga in modo così ossessivo sui nostri programmi televisivi)) che, tradotto può ridefinirsi come
"fai un salto o rischi di restarci ... secco". Solo due esempi: quello del topo sperimentatore e dell'esploratore. Nel primo caso si dà una situazione di mancanza di cibo per la quale un topo (non si conoscono, per quanto ne sappia, i criteri di scelta)) si espone ad assaggiare un cibo sconosciuto. È' il farmacos, colui che si immola (o viene immolato)) nella sperimentazione del nuovo da cui può derivare la morte o la sopravvivenza del singolo o del gruppo (ini taluni casi della specie)) divenendo farmacon, la cura - salvezza del gruppo di appartenenza (non casuale la quasi - sovrapposizione dei termini nella lingua greca). Nell'altro si ha una situazione di sovrappopolazione, ad esempio in un'isola, che produce forti tensioni nel gruppo sociale sino a che un individuo (o sottogruppo)) decide (liberamente e//o venendo a questo indotto)) di assumere il rischio di migrare verso nuovi orizzonti. In tali casi si tratta, come ad esempio nella colonizzazione delle isole del Pacifico, di affrontare le onde dell'oceano su fragili piroghe. Ancora una volta il bivio tra la morte o la conquista di una nuova patria. Gran parte dei miti di fondazione narrano di questo tema che si ripropone puntualmente in tutti i settori della umana esplorazione del mondo non solo a livello geografico, ma anche politico - economico e scientifico - culturale.
Di qui, verosimilmente, la proiezione immaginifica sul mito a sostegno dell'ardimento nell'affrontare il rischio spesso necessario per garantire la sopravvivenza e l'evoluzione. L'eccessivo ardimento, specie se incauto e motivato da spinte "anancastiche"" e irragionevoli, porta tuttavia a tragiche conseguenze. Di qui anche una "proiezione teologica"" all'insegna dei valori della cautela e della salvaguardia dell'esistente (con conseguente demonizzazione, in taluni casi, del nuovo e del diverso). Se, ad esempio, la dimensione eroica proposta da Omero enfatizza la scelta di Achille per una vita breve e gloriosa rispetto ad una lunga ed ingloriosa, Platone, nel mito di Era, ci presenta un Ulisse che, dovendo rinascer e, opta per una vita tranquilla ed anonima rinunciando ad essere l'eroe "bello di fama e di sventura". Si può legittimamente dire che su tale spartiacque – quasi una "pietra angolare"" - si sono divise le due impostazioni fondamentali nella storia dell'uomo. Una improntata ai "valori"" del rischio evolutivo ed una su quelli della conservazione dell'ordine esistente. Emblematica, come vedremo anche più avanti, la scelta (ma quale è lo spazio della reale possibilità di scelta??)) di Elena: accettare il rischio della passione per lo straniero o tutelare le sicurezze di una condizione pur privilegiata di partenza?? Su tale scelta l'umanità si divide da millenni e per millenni continuerà a dividersi. A sostegno della diversa inclinazione non giocherebbero, secondo recenti acquisizioni, anche dotazioni genetiche più o meno inclini al novelty seeking behavior (Zuckerman). A meno che anche l'attribuzione alla nuova Necessità - genetica delle sorti del nostro destino individuale non rappresenti una versione
moderna di una inesausta attitudine mitopoietica come tentativo di iscrivere i comportamenti umani in una griglia concettuale cui attribuire un significato plausibile. Ma per restare aderenti al tema, torniamo ai nostri miti.

Dei che giocano

Per Huizinga "in nessuna delle mitologie da me conosciute il gioco è incorporato in una figura di dio o di demone (con la precisazione, in nota, per la quale " Lusus, figlio o compagno di Bacco e progenitore dei Lusitani, è naturalmente un'invenzione di tarda età""); mentre, d'altra parte, si rappresenta spesso una divinità in atto di giocare"" (op. cit. p. 36). Riguardo alla pervasività del tema del gioco nella dimensione mitico - religiosa Frobenius, (da Huinziga, op. cit., p. 21)) sostiene che non si tratterebbe di un innato impulso al gioco, ma del fatto che "nei popoli, come nei bambini e in ogni uomo creativo, il dare forma nasce dalla commozione (in tedesco ergriffenheit concetto che indica l'essere presi, posseduti)) (......)) il gioco serve a rappresentare gli avvenimenti cosmici, a mostrarli, accompagnarli, realizzarli" (op. cit., p. 22).
Nella forma e nella funzione di un gioco l'idea di essere noi compresi in un cosmo, cioè in un ordine sacro, ottiene la sua primeva e suprema espressione. "Dentro il gioco viene incuneandosi a mano a mano il senso di un "atto" sacro. Il culto si innesta nel gioco. Però il giocare in sé fu il fatto primario" (op. cit., p. 23). Già Platone, del resto, suggeriva questo accostamento tra gioco e azione sacra "Si deve vivere giocando, facendo dati giochi e da ti sacrifici, cantando e ballando, per poter rendere propizi gli dei, respingere i nemici e vincerli nella battaglia"" (Platone, Leggi, VII, 796). Un Fanciullo divino si unisce quindi ad un Deus Ludens, creatore che non per rispondere a necessità esteriori, ma soltanto interiori trasforma le sue intuizioni in nuovi mondi e giocando con le infinite combinazioni degli elementi compone nuove creature e sempre più complesse espressioni di vita.
Non è facile quindi enucleare il tema del gioco perché lo stesso, al meno nella concezione ellenica, si intreccia all'intera tessitura del racconto mitico. Il tema del fanciullo divino riecheggia nei racconti su Dioniso, Ermete, Apollo, Ercole, Dioniso e i Cureti. Venere ed Eros giocano a palla (Apollo Rodio)) seppure in un divertimento foriero di destini fatali.
Anche nella cosmogonia induista compare il simbolismo di lila, il "gioco"" (alla cui radice semantica indica un movimento oscillatorio,, proprio del fuoco o del pendolo)) che esprime la " attività creatrice divina,, per quel suo aspetto di spontaneità,, di leggerezza mista a serietà,, di azione che agisce di per sé,, senza costrizioni,, che non bada ai frutti e che in se stessa trova la sua
giustificazione, quasi come il compimento di un atto rituale"" (Coomaraswamy, da D'Anna,11 999, p. 31).
Il tema della giocosità creatrice non manca di accompagnare la descrizione della cosmogenesi anche nel racconto biblico. Si legge nei Proverbi (88::227 - 31)) come " Quando (Dio)) fissava i cieli io (Hokma, la Sapienza divina)) ero presente (......)) Quando gettava le fondamenta della terra io ero al suo fianco, figlia diletta rallegrandolo giorno dopo giorno. E giocavo di continuo in sua presenza, giocavo sul globo della terra compiacendomi dei figli degli uomini"".
Il tema biblico - cristiano si fonderà poi a quello greco - alessandrino nella concezione del "divino fanciullesco gioco " proposta da Clemente Alessandrino. Di qui i riferimenti a quella theologia ludens per la quale Ippolito da Roma, rapito da ebbrezza mistica, invocava la festa eterna del Logos che " primo corifeo nella carola mistica con la quale il coro della terra fa ritorno a Dio " (Rahner,11993).

Il fanciullo divino

I bambini giocano. Lo fanno in modo creativo, leggero, intenso, totale. Il fanciullo divino che è in noi (Jung e Kerenyi, 1941, von Franz, 1970)) fa capolino, di tanto in tanto, tra le pieghe lasciate dalla necessità anche nella vita dell'adulto, e ci mette in contatto con questa attività edenica che come nessun'altra ci mette in contatto con la natura divina dei nostri albori. Echeggiando un passaggio evangelico, non sono forse i bambini ad "entrare nel regno dei cieli"?? Di qui la rappresentazione di un paradiso come luogo del gioco eterno, della danza dello spirito, dell'inesausta scoperta e riscoperta del nuovo e dell'insondabile. Per Platone l'uomo stesso altro non è, nella sua essenza, che paignion theou "giocattolo di dio" nel momento in cui esprime questa levità spirituale e padronanza istintuale del corpo che gli consente di partecipare della natura divina. Tutte le cose, la realtà come il gioco, tendono per Plotino (Enneadi)) alla theoria, alla visione (alla parola deriva dal verbo theomai che indica l'attività di assistere ad una processione)) " Dopo tutto tanto la serietà dell'adulto che il divertimento del bambino giocano perché sospinti verso questa visione". Come in un ineludibile piano inclinato, sia consciamente che inconsapevolmente, saremmo quindi destinati ad una progressiva (anche se non priva di inciampi)) assimilazione ad una logica divina che governa le sorti del mondo. La mancanza di necessità non implica la mancanza di significato che anzi in modo autentico si esprime e conferisce quindi a questo gioco il suo pieno valore di consistenza e di serietà seppure svincolato, nella sua essenza, da un dover essere a favore di un a inesauribile possibilità di essere.

 


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